La scultura: un porre in opera incorporante di luoghi e con questi un aprire di contrade per un possibile abitare di uomini, per un possibile dimorare delle cose che li attorniano e li riguardano.
Martin Heidegger
L’arte e lo spazio/Die Kunst und Der Raum
traduzione di Carlo Angelino , Il Melangolo, 1979
L’opera d’arte accade nello spazio inaugurandolo, non occupandolo. È con questa illuminazione che Martin Heidegger legge la modalità creativa della scultura, in rapporto allo spazio, inteso come luogo, come apertura di una contrada. Chi allestisce e chi visita una mostra assiste al dispiegarsi, ogni volta, di uno spazio inedito, in divenire: sono le opere che creano lo spazio che le accoglie, a partire dal quale acquisiscono nuova vitalità. È questa la modalità di lettura che sembra opportuno adottare per la mostra Perle Nere e Cristalli di Tempo dell’artista Antonio Lo Pinto (nato nel 1956 a Catania e residente, fin dall’infanzia, a Firenze) in quello spazio risplendente di quarzi, piriti argentate e dorate, di frastagliate rose del deserto che è il Museo Mineralogico Luciano Dabroi, luogo in cui la Natura si coniuga sorprendentemente e magicamente con la Cultura.
Come la nave immaginaria di Capitan Jack Sparrow, nella saga dei Pirati dei Caraibi, sono approdati nelle sale di Palazzo Tagliaferro, a un cenno dell’artista, cicli di oggetti sacri e profani, aristocratici e quotidiani, come le Dinastie ed i Blister, vasi marmorei e Prismi argentati, archetipiche, cosmiche, Collane iperdimensionate di perle nere, le cui venature bianche sembrano riprodurre il labirintico percorso di una mente creativa, di un artista realista e visionario insieme.
Disposte in cerchio, per adornare la grande colonna invisibile del tempo e del vento, queste enormi perle levigate sono di marmo nero di Marquinia, breccia calcarea di etá paleolitica, sedimentata nel periodo della conformazione geologica della crosta terrestre e ricavata dalle cave dei dintorni di Smirne, in Turchia, o di Bilbao, nella Spagna del Nord. L’iperdimensione delle Perle Nere esce dalla proporzione per accedere alla statura del monumento, concettualmente ideato, tuttavia, per delineare e cingere il vuoto, la luce e l’ombra, per sfiorare, con la materia, i bordi dell’immateriale, con il limite della forma il non limite dell’infinito. Una disseminazione di pillole, iperdimensionate anch’esse, rosa del Portogallo, bianco di Carrara, onice, verde delle Alpi, giallo di Siena e ancora nero Marquinia, di natura geologica, non chimica, non attenta alla salute della terra per sanare la malattia, reale o immaginaria, dell’uomo, ma ne abita il giardino, spostando la sua funzione su un terreno altro, ludico, estetico. Ancora in mostra due prismi argentati, in attesa di una funzione – come annota l’artista – alcuni bassorilievi marmorei rinvianti a tavole di scrittura, sculture da muro, piani pittorici, improntati ad un minimalismo geometrico. Dal pavimento ci guarda, con la sua pupilla bruna al centro dell’iride dorata, un inquietante, abnorme, bulbo oculare sferico.
Antonio Lo Pinto, attivo nel mondo dell’arte dalla metà degli anni Ottanta, non cessa di dislocare altrove oggetti funzionali ad altri contesti, ad altre destinazioni. Muovendosi su un terreno sospeso tra l’ epico e il quotidiano, tra il gotico ed il postmoderno, tra il rituale e l’aleatorio, tra il mitico e l’illusorio, l’universo di questo artista ha sempre l’uomo al centro, con i suoi azzardi e le sue disillusioni, le sue utopie celesti e i suoi radicamenti terrestri. Tra la fisicità e la metafisica, tra il reale e il surreale, tra la gravitazione e la leggerezza, la mostra, scaturita dall’operosità dello scultore e dalla pensosità del sognatore, si snoda tra gli spigoli del poliedro, le punte ed i reticoli del cristallo, le curve della sfera, la sinuosità e la perpendicolarità di vasi contenenti e contenuti in una forma che li deborda e, al tempo stesso, li accoglie. Impegnato tra ideazione ed esecuzione, progetto e oggetto, opera e ambiente, Antonio Lo Pinto pratica simultaneamente la tradizione e l’ innovazione, la classicità e la sperimentazione di nuove forme di materia e pensiero, con esiti di misura e dismisura estetica, che l’osservatore percepisce a livello emotivo e sensoriale.
Così si esprimeva Heidegger nel 1964, in merito alle Teste scolpite da Bernhard Heiliger: «Una testa non è un corpo a cui sono stati aggiunti occhi e orecchie, ma un fenomeno corporeo, contrassegnato dall’essere-al-mondo che guarda e ascolta. Quando l’artista modella una testa, sembra solo riprodurre le superfici visibili; in verità, egli configura ciò che è propriamente invisibile, ossia il modo in cui questa testa guarda nel mondo, il modo in cui soggiorna nell’aperto dello spazio, nel quale viene coinvolta da uomini e cose».
Viana Conti