Palazzo Tagliaferro – Museo Mineralogico Luciano Dabroi Largo Milano, ANDORA (SV)
Orario di apertura sabato e domenica h. 15:00 – 19:00
ANDORA – è allestita nelle sale del Museo Mineralogico Luciano Dabroi la mostra, a cura di Viana Conti e Christine Enrile, “Daniele Aletti | Quando la Scultura inaugura uno spazio – Daniela Madeleine Guggisberg | Vitalità Creativa del Vuoto”.
La mostra, inserita nel programma di valorizzazione del patrimonio museale promosso dal Comune di Andora in collaborazione con C|E Contemporary, propone le opere scultoree della coppia di artisti svizzeri Daniele Aletti e Daniela Madeleine Guggisberg.
La lettura delle opere scultoree di Daniele Aletti (nato a Olten nel 1962, Svizzera, di origine italiana), e di Daniela Madeleine Guggisberg (nata a Zurigo nel 1963) – coppia di artisti che dal 1994 vive e lavora a Sale S. Giovanni, Cuneo, Italia – non prescinde dalla loro qualità di vita, improntata, in famiglia, alla pratica dello yoga, all’esercizio del vuoto tramite la meditazione, né dal loro habitat, dal luogo cioè che hanno scelto per la loro comune esistenza.
Per entrare nel loro atelier occorre, paradossalmente, uscire all’aperto, percorrendo un sentiero erboso, sovrastati da pareti di roccia. Allo sguardo si presenta un arsenale di smerigliatrici e scalpelli, punteruoli e martelli, trapani e dischi diamantati, guanti e mascherine, attrezzature ad acqua per eliminare la polvere, gravine e carta vetro, sgorbie, cavalletti e manichette, tutti allineati lungo i fianchi odorosi di una collina dell’Alta Langa; in parallelo si dispiega una copiosa famiglia di blocchi, multidimensionali, di marmo grezzo, in attesa o in corso di lavorazione. Quanta pietra, quanto colore, quanta energia, circola nel laboratorio di questa coppia di scultori, sotto il manto azzurro del cielo, sopra il prato verde della terra, scaldata dal sole, raggelata dalla neve; quante forme scaturiscono dal loro immaginario, naturalmente, come sorgenti dalla roccia, quanta sorridente ironia e trasparente modestia emana dalle loro presenze! Entrambi prescindono dal modellato per sfidare direttamente il blocco nella cava, ricorrendo, per lo più, al taglio diretto. Varcata la soglia di una grotta, dalle volte di mattoni e le pareti di pietra, attraversata da lame di sole, tagliata da zone d’ombra, il visitatore si trova confrontato con un dispiegamento di opere esposte in permanenza: sfilano i neri Ormea e Marquinia, i bianchi Carrara e Statuario, i rossi dell’Elba, Villarchiosso, Breccia di Toirano, Nava, il viola Piemonte, il rosa Nava, il Granito Sardo, il dorato serico del legno di rovere, il sabbia di Desertetto, firmati Aletti; sfilano la Pietra dorata, il Bianco di Naxos, il rosa del Portogallo, il nero Portoro marezzato di venature, il Verzino di Frabosa, la Pietra di Rezzo, il Persichino, firmati Guggisberg. È la pratica quotidiana della scultura che ha dischiuso per Daniele Aletti e Daniela Madeleine Guggisberg una contrada/eine Gegend: una dimora di meditazione e creatività.
Daniele Aletti Quando la Scultura inaugura uno Spazio
Leggere le opere di Daniele Aletti (nato a Olten nel 1962, Svizzera, italiano d’origine) come una modalità del fare spazio è un chiaro riferimento alla nozione di scultura in Martin Heidegger. Un’opera dell’uomo è tale – dice il filosofo tedesco – se origina un luogo e l’opera di questo artista italo-svizzero non cessa infatti di aprire spazi all’accoglienza di un essere, alla messa in opera di una forma nel corpo di una pietra millenaria, di un nobile marmo, di un umile asfalto, di un tenero legno. A proposito della scultura del grande solitario basco Eduardo Chillida, è ancora Heidegger che ricorre all’esempio di quel ponte di Heidelberg, che Hölderlin aveva già cantato nella sua poesia, per aprire alla comprensione del suo pensiero intorno allo spazio: Il ponte – scrive – si slancia leggero e possente al di sopra del fiume. Esso non collega soltanto due sponde già presenti. Solo nel passaggio da un lato all’altro del ponte le sponde si manifestano in quanto sponde. È il ponte a far sì che esse si contrappongano l’un l’altra.
Le sculture di Daniele Aletti sono racchiuse intorno ad un centro, si adagiano orizzontalmente cercando la terra, si alzano verticalmente guardando il cielo, cercano un equilibrio sulla base, sentono, sfidandola, l’attrazione gravitazionale. Nelle sue opere, il corpo umano si compatta in un blocco, a volte si inclina lievemente, quasi in un accenno di inchino, la coppia si fronteggia, come in Brancusi, le braccia si fondono con il torso. Entrando nel campo delle libere associazioni, lo scultore non gioca solo con le assonanze delle forme, ma anche con quelle delle parole, essendo di doppia madrelingua. È cosi che, nell’ideare i titoli, L’Arca di Noè diventa L’arpa di Noè, è così che la scappatella tedesca, Seitensprung, diventa un Salto di Seta, Seidensprung, monumento in Marmo chiaro di Desertetto, dalla superficie morbida e cangiante, le cui pieghe centrali rinviano ad un effetto serico; una spaccatura, all’estremità di sinistra, riconferma la perfezione dell’imperfezione, quando è il Caso a deciderla. Come non citare le Correnti d’Aria Uno e Due, sulla cui forma a foglia, in Bianco di Carrara, si aprono sottili fessure o l’opera Tra Zorro e Fontana, su cui quattro intagli netti del blocco, in Breccia di Toirano, delineano l’inconfondibile segno gestuale della Zeta. Nel taglio della piega la superficie diventa profondità. Pur concedendo spazio di interpretazione all’osservatore, Aletti, tuttavia, gli crea qualche zona di ambiguità, di slittamento ironico del senso, di smitizzazione di quell’aura che, inevitabilmente, aleggia intorno all’opera marmorea.
In lui l’idea di barca, scaturisce da un percorso di mediazioni, diventa pretesto per una ricerca formale in cui si confrontano lunghezza e cavità, velocità e leggerezza, gli elementi dell’aria e dell’acqua, le condizioni del galleggiamento e dell’affondamento. Il suo rapporto con la bidimensione, percepibile nei suoi Micro Macro, acrilici su carta, dove fluttua, su fondi monocromi, una moltitudine di micro particelle – possibili sciami di pesci in transito, spostati da una sorta di moto ondoso, o anche di spermatozoi – può introdurre alla dinamica degli eventi, materiali ed immateriali, che hanno luogo nella sua avventura creativa tridimensionale.
Sospese tra memoria figurale e astrazione, le sue sculture stimolano l’Aisthesis dell’osservatore: quell’emozione sensoriale in cui il tattile ed il visivo competono attrattivamente. Ricorrono nell’opera di Daniele Aletti le figure dell’apertura, della fessura con richiamo all’erotismo – l’omaggio a L’origine du Monde di Courbet lo conferma – del movimento ondivago, della piega, del corrugamento, del foro, della torsione, della spirale: figure tutte raccontate nel segreto delle sue fitte, incisive, iscrizioni asemantiche.
Daniela Madeleine Guggisberg Vitalità Creativa del Vuoto
Daniela Madeleine Guggisberg (nata a Zurigo nel 1963, Svizzera, dal 1994 vive e lavora a Sale S. Giovanni, Cuneo, Italia) benché operi sull’area della scultura a partire dall’incontro, nel 1990, con lo scultore Daniele Aletti, tuttavia ne vive l’esperienza, in piena autonomia, come riflesso di una sua originaria e fertile creatività, di una sua incontenibile e sensibile potenzialità manuale. La pratica del Vuoto, tramite l’esercizio della meditazione Yoga, diventa componente fondamentale della sua opera, esito di un’estetica, che prescinde da una teoria di segno occidentale, per farsi corpo, nello spazio e nel tempo del suo accadere, attraverso le varie fasi del rituale della lavorazione scultorea. I gesti con le mani e con gli attrezzi, i rumori assordanti ed i silenzi profondi, il contatto della pelle con la superficie fredda o calda dei materiali, le vibrazioni che ne emanano, la polvere di marmo o di pietra che si diffonde a nuvola fino a dissolversi nell’aria, gli odori del metallo e della terra, i colori del blocco e del paesaggio, concorrono tutti a divenire opera, a scolpire l’incontro con il caso, l’imprevisto, l’indeterminato, l’infinito. La ricorrenza, profondamente avvertita, nella sua opera scultorea (Infinitamente, 2008, pietra dorata), del simbolo, appunto, dell’infinito – figura di un numero 8 sdraiato o di due cerchi congiunti – intende esprimere la continuità e contiguità tra l’universo della materia e quello della spiritualità, la congiunzione spaziotemporale del ciclo vitale.
È quasi in trance la scultrice quando accarezza i bordi dei suoi Girevoli, delle sue Trottole, ruotanti su un punto d’appoggio, quando sfiora le fresche superfici levigate dei suoi marmi, quasi specchianti, i rilievi o i graffi impressi con la gravina, le sue iscrizioni, le textures, le bocciardature. La memoria di un soggetto ripreso dalla Natura, come la Manta – elegante pesce cartilagineo dal disco romboidale – ad esempio, si trasforma nella vitalità di un corpo di marmo, scaturito sì dalla mente, ma realizzato tramite un’energia interiore che si trasmette alle mani, nei tempi e nei modi della lavorazione messi in atto dall’autrice. Con la naturalizza con cui cadono la pioggia e la neve, con cui le onde si rincorrono sullo specchio marino, gli uccelli si librano nell’aria, così prendono forma, tra le mani di Daniela Madeleine Guggisberg, non senza il duro lavoro che la scultura richiede, una Calla Bianco di Carrara, un Fiore Rosa di Nava, una Razza del Deserto in Pietra Dorata, una Manta nera su un Fondale Bianco di Naxos, una Barca Nero Ormea, il cui bordo superiore è delineato, sorprendentemente, dall’inseguirsi delle onde, un Cobra, che risvegliata l’energia dormiente, si erge minaccioso, tendendo il suo cappuccio a squame. Volgendo in leggerezza l’inerzia statica del peso, le sue mante sembrano aprire le ali sul vuoto, distendere le pinne sui fondali sabbiosi del mare. Nel nutrito repertorio di Aperture, Fiori, Forme libere, Voli, Intermezzi, Abbracci, è la fisicità dell’artista che viene chiamata in causa, accanto al suo slancio creativo, la sua intensa manualità, quella gestualità che la induce, parlando della sua opera, a toccarla insistentemente, a ripercorrerla, con la mobilità delle sue dita, quasi volesse ricordarne i momenti di lavorazione, quasi a farle vitare la forma tra le sue mani, richiamandola alla vita, in un secondo risveglio di intenso ordine emozionale.
L’esercizio del vuoto, la concentrazione, la fermezza di un impegno, sono le condizioni di possibilità per il venire alla luce di un’opera per cui la stessa scultrice si fa risonanza di un’armonia cosmica che la anima e la guida.
Viana Conti