Le iridescenti sale del Museo Dabroi, accolgono le installazioni sotto vetro dell’artista Pablo Mesa Capella che, nato a Malaga con un background nel campo teatrale ed una passione per gli oggetti, ha dato vita a opere che possiamo definire piccoli contenitori di memoria in cui gli attori sono oggetti di uso comune quali ritagli, stoffe, fotografie, cartoline che diventano narratori simbolici di storie.
Oltre 20 microcosmi che porteranno lo spettatore ad abbandonare la staticità della sua condizione di osservatore dei movimenti altrui per diventare lui stesso partecipe, anche fisicamente, della ricerca del dettaglio che costituisce la composizione. Come un gigante in un mondo piccolo, l’osservatore si avvicinerà alle campane di vetro di questi palcoscenici irreali cercando rimandi, inseguendo dettagli, scrutando particolari alla ricerca di un disegno complessivo.
Racchiudere il mondo dentro una campana di vetro non vuol dire mettersi dalla parte di Dio, sentirsi dei creatori onnipotenti. Significa piuttosto concentrarsi sul dettaglio per leggere la bellezza del tutto.
Le opere di Mesa Capella non intendono essere delle fotografie di una condizione o di una situazione; vogliono piuttosto essere il punto di partenza di una narrazione che si muove, in un continuo andirivieni, fra presente e passato. Fotografie d’epoca, oggetti, elementi vegetali, testi scritti si fondono in un gioco di rimandi in cui l’ironia sdrammatizza non soltanto la composizione e il messaggio, ma l’essenza stessa dell’arte. Non c’è nulla di monumentale nel lavoro di Mesa Capella, c’è anzi l’idea di riportare la grandezza della storia a un mondo fatto di cose piccole, a una soggettività di ricordi e alla stessa materialità di questi ricordi. Gli oggetti smettono così di essere inanimati e diventano i protagonisti di un racconto che essi stessi propongono. Una lanterna arrugginita ci fa entrare nella sua vita passata, animandosi ci fa vedere le farfalle che nei secoli si sono posate su di lei, i volti delle persone che l’hanno posseduta; la perfetta monumentalità delle uova di struzzo diventa il pretesto per guardare dentro a delle serrature immaginarie da cui fanno capolino delle scene di sesso che sono così decontestualizzate da diventare perfino poetiche; un granchio ritorna in vita dalla zuppiera dove è stato cucinato, all’interno di un tempo che non solo si è fermato ma è stato addirittura soggetto a un lento rewind.
Il ciclo delle campane di vetro è quindi il tentativo riuscito di afferrare la grandezza del passato e la complessità della vita scherzandoci sopra ma senza mai banalizzare, inducendo piuttosto nell’osservatore una curiosità che lo porta a riflettere, a pensare a se stesso seriamente ma senza prendersi troppo sul serio, a immaginare la propria esistenza come quella di una piccola entità, racchiusa anch’essa in una campana che vaga nella smisuratezza dell’universo.
Nelle installazioni effimere c’è invece uno sguardo al futuro, ad un tempo che si dilata e che ci costringe non soltanto a interrogarci su cosa stiamo osservando ma su cosa potremmo vedere di lì a qualche giorno o a qualche mese. Anche in questo caso, se pensiamo ad un altro lavoro dell’artista come “Aqua botanica” la dimensione rassicurante e poetica di migliaia di elementi naturali (fiori e foglie) racchiusi in altrettanti sacchetti di plastica riempiti di acqua limpida, viene messa fra parentesi dal tempo che scorre e che va a intaccare la bellezza dei fiori appena colti per trasformarla in un altro tipo di bellezza, in cui l’elemento mortifero della decomposizione viene trasfigurato fino a perdere la sua connotazione negativa per diventare semplicemente dell’altro. I colori cambiano, l’acqua si intorbidisce ma la forza dell’equilibrio della messa in scena fa sì che tutto si trasformi rimanendo ancorato alla poesia iniziale. La dimensione concettuale di questo lavoro non rinuncia alla bellezza, alla poesia, all’uso dei colori che la natura mette nelle mani dell’artista. La semplicità degli elementi naturali diventa quindi il pretesto per una rappresentazione plastica della caducità dell’esistenza ma anche in questo senza che il dramma prenda il sopravvento.
Lo scorrere del tempo è al centro anche di un altro, più recente, lavoro installativo. Si tratta dell’opera intitolata “Convivio” nella quale delle fotografie d’epoca, vengono ingrandite e stampate su dei supporti su cui l’artista interviene pittoricamente e che sono poi abbandonate a loro stesse e alle influenze del tempo atmosferico. In quest’opera sono al centro una serie di ribaltamenti semantici che finiscono per farne un lavoro concettuale. Le immagini scelte dall’artista sono delle piccole fotografie che vengono invece ingrandite a dismisura; si tratta di ritratti destinati a rimanere parte della vita privata delle persone ritratte che vengono dissacrate esponendole agli occhi di tutti; il logorio prodotto dal tempo che è trascorso dal momento in cui sono state scattate viene azzerato ristampandole su un supporto nuovo; la serialità dell’immagine fotografica è annullata dall’intervento pittorico dell’artista; infine, la sacralità di questo intervento viene rifiutata dall’artista stesso col gesto di esporre le opere sotto il sole, il vento e la pioggia. L’ultimo ribaltamento riguarda, anche in questo caso, l’osservatore che si interroga sull’essenza stessa dell’opera d’arte: qual è l’opera? Quella esposta il primo minuto dell’installazione o quella che vedremo l’ultimo minuto prima di essere disallestita, quando i fattori atmosferici saranno intervenuti su di essa modificandola? E chi sarà l’artefice del manufatto artistico definitivo? L’artista o il sole, la pioggia, il vento? O, semplicemente, il tempo?
Al centro dell’opera di Mesa Capella ci sono, dunque, tutti i temi cruciali con cui l’arte si è sempre misurata, primo fra tutti il rapporto fra la vita e la morte. Ciò che rende la sua ricerca originale nel panorama artistico contemporaneo è la fusione fra eleganza e sfrontatezza, fra dramma e ironia, fra serietà e scherzo, fra kitsch e raffinatezza. Si tratta di un progetto che racconta la nostra condizione postmoderna e le sue contraddizioni, ma con la leggerezza di cui è capace soltanto l’arte, quella vera.