JOÃO COELHO | I DIMENTICATI

Inaugurazione
SABATO 23 APRILE 2022 DALLE 18.00

JOÃO COELHO

I DIMENTICATI

A cura di Christine Enrile con Batsceba Hardy

Introduzione alla mostra delle curatrici

alla presenza del Sindaco del Comune di Andora Mauro Demichelis

e dell’Assessore alla Cultura Maria Teresa Nasi

 

Sono nato in Angola nel 1964. La guerra di indipendenza ha costretto la mia famiglia a trasferirsi in Portogallo, io ho dovuto interrompere bruscamente l’adolescenza e ho ancora tanta nostalgia dei miei primi anni in Angola. In Portogallo ho completato gli studi laureandomi in giurisprudenza. Ho iniziato la mia carriera ma ben presto mi sono spostato nel settore bancario e finanziario. In risposta al richiamo della terra natale, quattordici anni fa ho colto un’opportunità di lavoro in Angola per sviluppare progetti di auditing e consulenza nell’ambito sociale. Ho sempre provato una forte attrazione per l’espressione scritta e visiva, letteratura, pittura, cinema, musica. La passione per la fotografia è stata una conseguenza naturale, e a vent’anni ho acquistato la mia prima macchina fotografica. Come autodidatta ho cercato di migliorarmi con la lettura di libri e pubblicazioni specializzate e attraverso vari tentativi, anche errori, sono riuscito a pubblicare dei servizi fotogiornalistici su alcune riviste in Portogallo, ma a causa degli impegni professionali ho lasciato da parte la fotografia per alcuni anni. Sono stati il ritorno in Angola e la convivenza quotidiana con i suoni, gli odori e i colori dell’Africa, nonché il contatto con storie di sopravvivenza, a risvegliare la mia passione, e la voglia di raccontare attraverso le immagini. Non è stato facile, ho dovuto superare parecchi ostacoli, come la paura di scattare fotografie in strada a causa dell’alto tasso di criminalità che esiste in Angola, e la tenace resistenza delle persone a farsi ritrarre, un’altra caratteristica a queste latitudini.

Ed eccomi a fotografare le persone e le loro storie, all’inizio timidamente, superando le barriere per conoscere veramente chi ho di fronte, il più delle volte storie di povertà, ma vi ho sempre trovato una straordinaria resilienza, amore e cameratismo anche quando non puoi immaginare un futuro a lieto fine. L’interazione con i miei soggetti mi ha portato ad adottare e affinare una tecnica fotografica ravvicinata, dove lo studio degli angoli di ripresa assume grande importanza. Attualmente sto usando una Canon R5 che Canon Portugal mi ha gentilmente prestato – in linea di principio la scambierò con la vecchia 5D Mk IV – e un nuovo obiettivo mirrorless grandangolare, un 14-35 mm. Il grandangolo mi permette di essere vicino ai soggetti e contemporaneamente di includere parte dell’ambiente. Talvolta utilizzo un obiettivo 80-200 mm se non voglio interferire con la scena ripresa o quando penso che i soggetti, come per esempio bambini, siano più rilassati senza la mia presenza ravvicinata.

L’Africa è conosciuta per i suoi colori esuberanti, ma il B/N è stata per me una scelta ovvia. Il mio scopo come fotografo e come persona è trasmettere emozioni, sentimenti, attirando l’attenzione sulle disuguaglianze e le asimmetrie che ancora esistono nel mondo in cui viviamo. Lo sguardo più dolce di un bambino ha una storia forte dietro. Se riesco in qualche modo a trasmetterlo, allora mi sento realizzato. L’editing e la post-produzione sono fasi importanti del mio lavoro, per garantire l’impatto e la bellezza delle immagini. Già nel momento della scelta le immagini devono soddisfarmi dal punto di vista narrativo, della composizione e della tecnica, prima che possa migliorare o ottimizzarne l’effetto con la conversione in B/N. Per il progetto qui in mostra, che ho chiamato “I dimenticati”, ho provato a usare immagini a colori, ma colori che non ci si aspetta dall’Africa e diventano quasi dei trasmettitori olfattivi. Il fatto di lavorare in una Paese difficile, non mi permette di uscire semplicemente per strada e di scattare liberamente, quindi devo studiare dei piani a lungo termine, che richiedono l’identificazione preventiva di luoghi con una certa sicurezza e che le persone accettino di essere fotografate nel loro ambiente. L’imprevista pandemia mi ha costretto ad annullare alcuni piani.

Il mio progetto fotografico in Africa si mescola con il mio progetto di vita, il desiderio di tornare dove sono nato. La consapevolezza e la tristezza nel vedere come le persone facciano fatica a vivere giorno per giorno, mi ha spinto in una direzione che non avrei preso se fossi vissuto in un Paese del ricco mondo industrializzato. I grandi maestri, come Sebastião Salgado, Dorothea Lange o Robert Frank, mi hanno ispirato e continuano a farlo; in particolare Salgado che trasmette messaggi sociali ed ecologici.

I dimenticati 

Questa è iniziata come la storia di una famiglia di dieci persone: genitori, figli e alcuni nipoti. Per molti anni hanno lavorato e vissuto in questa discarica alla periferia di una città nel sud dell’Angola.
Il paesaggio è desolato, quasi paragonabile a uno scenario post-apocalittico. I camion che raccolgono la spazzatura in città, la scaricano qui indiscriminatamente e disordinatamente, in pile che occupano sempre più spazio disponibile. A parte i rifiuti che si accumulano a perdita d’occhio, l’orizzonte è costellato di fragili baracche costruite con bastoni e brandelli di stoffa: le dimore degli spazzini. La fitta nebbia scura, provocata dai roghi di spazzatura, si estende fino alle montagne, che si ergono sullo sfondo come una barriera che divide questo luogo dalla città. Lì abitano coloro che producono la spazzatura, e indirettamente danno da vivere a chi abita e lavora qui: i dimenticati. Non solo dimenticati ma anche invisibili, perché non si vedono dall’unica strada che passa, distante circa 2 km. Chi potrebbe immaginare che persone e intere famiglie vivono e lavorano in questo marasma di rifiuti, polvere e fumo dove il loro unico destino è sopravvivere in condizioni così dure e precarie?

Attenta all’arrivo dei camion che trasportano il prezioso carico, la famiglia si precipita a raggiungere per prima il luogo di scarico, guadagnandosi così il diritto agli avanzi della giornata. La maggior parte delle volte bisogna correre dietro ai camion perché non si può mai prevedere dove andranno a finire. In caso contrario, altri gruppi nelle vicinanze si impossessano rapidamente dei cumuli di spazzatura. Perciò bisogna combattere e sviluppare strategie per procurarsi questo lavoro in cui solo i più forti sopravvivono.

I rifiuti urbani costituiscono uno dei problemi più critici in Angola, dove non esiste la raccolta differenziata né è previsto il trattamento dei rifiuti in discarica. Uno studio condotto nel 2016 indica un totale di 3,5 milioni di tonnellate di rifiuti prodotti ogni anno in Angola, di cui circa un terzo ( 1,3 milioni di tonnellate) nella sola capitale. Lo stesso studio sottolinea che, con l’attuale tasso di crescita demografica, si andrà verso uno scenario di sfide incredibili: il volume di produzione di rifiuti a Luanda aumenterà del 146% entro il 2025, mentre la raccolta e il trattamento non terranno il passo con questo tasso di crescita.

In ogni mucchio di spazzatura depositata all’aria aperta si può trovare di tutto: plastica, lattine, cartone, vestiti, vetro, avanzi di cibo, scorie di industrie e allevamenti, persino carogne di animali. L’odore è nauseante, l’aria è calda, satura dei fumi tossici di pneumatici e plastica in fiamme. Nugoli di mosche sono una presenza costante.

La famiglia setaccia i cumuli di immondizia con ammirevole efficienza utilizzando ferri dalla punta leggermente ricurva. Cercano avidamente tutto ciò che potrebbe avere un valore, che anni di convivenza con i rifiuti hanno insegnato loro a riconoscere anche quando si avvicina la minaccia della notte. Cartoni e lattine di alluminio vengono raccolti scrupolosamente per essere venduti ad alcune industrie che se ne avvantaggiano per il riciclaggio, ma “i dimenticati” sono anche alla ricerca di altri tesori per se stessi, come vestiti, scarpe vecchie o persino scarti di cibo. Nella divisione dei compiti gli uomini salgono in cima ai mucchi di rifiuti e gettano a terra ciò che 

trovano, mentre le donne lavorano alla base dei mucchi e fanno pile con la spazzatura adeguatamente separata. Sempre le donne avvolgono i contenitori di cartone e i barattoli di 

alluminio nei panni che si mettono sopra la testa per portarli nei rifugi dove vivono, per venderli il giorno dopo. Ciò che tengono per sé, come brandelli di abiti, stracci e avanzi di cibo, vengono spesso scambiati con altri gruppi nella discarica. Dentro la discarica non c’è circolazione di denaro, ma solo un’economia di baratto tra gli spazzini. Anche l’acqua che bevono proviene dal lavoro. I camion che trasportano i rifiuti dagli allevamenti di pollame e bestiame trasportano anche l’acqua con cui gli spazzini lavano i contenitori ed è quest’acqua che bevono. Lavorano in silenzio e in modo quasi meccanico, come se tutte le parole fossero già state dette e ognuno sapesse cosa fare senza bisogno di ulteriori domande o commenti. L’unico rumore che si sente è la tosse cavernosa, perché i polmoni soffrono per l’ambiente malsano e l’inalazione di fumi tossici in anni e anni. Il fumo e il silenzio gravano aggiungendosi alla sensazione di desolazione, come se si camminasse nelle trincee di una guerra perduta. Sembra davvero la fine del mondo, perché è difficile concepire condizioni più avverse per un essere umano.

Tuttavia, è facile imbattersi in un sorriso, aperto, sincero. Così mi sono sentito al sicuro anche qui, alla fine del mondo, dove le persone sono buone dentro e infelici fuori. Ho trovato in questa famiglia una mutua solidarietà, nonostante le condizioni di lavoro e l’evidente stanchezza. Ana, la figlia più piccola, è incinta. Non sa per quanto durerà la gravidanza, ma continuerà a lavorare fino all’ultimo. Jorge, il figlio maggiore, è praticamente cieco dopo aver sofferto di congiuntivite per mesi. Il padre accusa la tosse cavernosa e continua di chi è già stato colpito dalla malattia polmonare. Una delle nipoti, di soli due anni, conosce solo questa vita in questo paesaggio e non reagisce più alle decine di mosche che si depositano su tutto il corpo. Tutti portano i segni di ferite che impiegano troppo tempo a rimarginarsi, anche il cane, fedele compagno della famiglia.

Il lavoro è governato dalla spola dei camion della spazzatura, anche quando piove. L’ultimo camion viene scaricato mentre il sole tramonta all’orizzonte, quando le sagome indistinte della famiglia sembrano soldati e la spazzatura è un amalgama che non si distingue bene. Solo dopo che l’ultimo mucchio è stato setacciato, si ritirano nelle loro misere tende allestite lì accanto, e accendono il fuoco per cucinare qualcosa che hanno raccolto durante il giorno, tenendo lontani gli sciacalli che si aggirano per il campo nel buio della notte calata sulla pianura. Difficile da credere ma sono ancora più “dimenticati” di notte, quando i camion hanno cessato di arrivare.

Sono passati cinque mesi da quando ho visitato per la prima volta questa discarica. Il paesaggio è cambiato. Ora non ci sono più gli enormi cumuli di immondizia lungo la pianura, che aspettano di essere setacciati dalle famiglie che qui vivono e lavorano ormai da anni. Una nuova discarica è stata aperta dall’altra parte della città, dove viene deviata la maggior parte della spazzatura e dove altre famiglie e gruppi hanno guadagnato posizioni che difendono strenuamente, con la violenza se necessario. In questi luoghi, l’immondizia che a tutti fa schifo viene aspramente contesa, e ci si scontra a volte versando anche il sangue.

Una fitta coltre di immondizia occulta il paesaggio a perdita d’occhio, coprendo la terra secca e polverosa per la lunga siccità. Forse pioverà non prima della fine del prossimo mese, dicono gli anziani mentre scrutano le nuvole sopra di loro, il cielo indifferente alle loro suppliche. I pochi ortaggi che sono riusciti a coltivare si sono seccati da tempo, e ora bisogna razionare con cura la scarsa acqua piovana immagazzinata nei barili. L’acqua è uno dei beni più preziosi, se non possono raccogliere quella piovana, devono camminare per circa dieci chilometri fino a un distributore di benzina dove c’è un pozzo e dove c’è ancora la carità verso gli altri.

Il paesaggio umano è cambiato nella vecchia discarica. Alcune delle persone che avevo fotografato non ci sono più, per certuni è arrivata la morte, per altri la disillusione e sono andati a 

cercare un destino diverso altrove. In questa desolazione sono nate nuove vite. Sfortunate, perché le attende un futuro ingrato, dove calore, polvere, insetti e fumi tossici saranno onnipresenti mentre aiuteranno i genitori a setacciare la spazzatura. Ciò non impedisce a uomini e donne che vivono qui di continuare ad avere figli, perché questa è la loro sola speranza nel futuro e di avere brevi momenti di felicità.

La presenza dei bambini non rende questo paesaggio meno desolato, più allegro. A piedi nudi sepolti nei mucchi di spazzatura, lavorano già come adulti, meccanicamente, abilmente, in silenzio come robot. Non ci sono facce felici o momenti diversi. Non sono più bambini o non hanno tempo per esserlo. Solo alla fine della giornata, quando tornano nelle loro baracche, si apre una finestra nella loro vita e tornano bambini che si eccitano giocando con le bambole rotte che altri bambini hanno buttato via, o inventando i propri giocattoli con gli oggetti che hanno trovato nella spazzatura. Guidare un copertone di bicicletta con un bastone o fare torte con la sabbia fino a notte è divertente. La ricreazione, però, dura poco per i fratelli maggiori, chiamati a prendersi cura dei piccoli mentre le madri lavorano. Padri e madri prematuri.

Le giovani mamme non hanno altra scelta che lavorare con i figli sulla schiena, portati in un telo (“kakunda” nella lingua locale “umbundu”) legato attorno al corpo. Non abbandonano mai i pargoli nonostante la fatica ulteriore che si sobbarcano, una dimostrazione dell’enorme dedizione, del sacrificio e dell’amore di queste donne verso la maternità.

Alla fine della giornata il paesaggio si trasforma totalmente. Dopo aver esaurito ogni sforzo per setacciare pezzi di cartone, raccogliere brandelli di vestiti e rimasugli di cibo, al tramonto gli uomini danno fuoco alla spazzatura, per individuare meglio lattine di alluminio e pezzi di metallo, i trofei più ambiti perché possono essere venduti per il riciclaggio. Le fiamme brillanti si stagliano tra il fumo denso, quasi palpabile, che invade la pianura mescolandosi con le raffiche di polvere sollevate dal vento. Uno scenario post-apocalittico, dove si aggirassero i pochi sopravvissuti, non dovrebbe essere diverso da questo. Nascosti da questa nebbia di gas bollenti e tossici, sagome scure vagano tra le fiamme e le ceneri, alla ricerca impaziente del bottino di fine giornata. Occhi abituati all’oscurità e allenati a identificare i più piccoli pezzi sopravvissuti alle fiamme, raccoglierli attraverso il caos, insensibili al caldo e al fumo soffocante.

I giorni sono sempre uguali, ma fino a quando? Fino a quando si dovrà essere resilienti a tal punto per sopravvivere? Fino a quando questi bambini non potranno essere come tutti gli altri bambini? E queste persone saranno dimenticate?