CARLA IACONO | LE SPOSE DI DARWIN

Dispositivi di Meraviglia/Bersagli di Attenzione di Viana Conti Carla Iacono, artista nata e residente a Genova (1960), attiva, particolarmente, in Italia e nel Nord Europa, mette in opera una sua singolare ricerca estetica sulle zone di sconfinamento del binomio concettuale Natura/Cultura. Di lei sono noti i set fotografici, ripresi in digitale, di assemblage in cui una figura protagonista, tendenzialmente un’adolescente, affiora frontalmente dal profondo come un’ ἐπιφάνεια, un’apparizione scaturita dall’inconscio, ma ricostruita in un contesto di autorispecchiamento e mutazione. Il suo lavoro è sotteso ai riti di passaggio dall’infanzia all’adolescenza e dall’adolescenza all’età adulta. Nel rappresentare un mondo surreale, una notturna terra di mezzo, sospesa tra specchi d’acqua, vegetazione abnorme, misteriose foreste di alberi e stalattiti, si stabilisce, creativamente, un rapporto empatico tra l’infanzia e gli animali delle favole, riconducibile, nell’opera di Carla Iacono, in parte e non casualmente, all’universo di Lewis Carroll. Lo scenario, predisposto iconograficamente, si fa portatore di un messaggio dai risvolti, sovente, psicanalitici, ora letterari, ora antropologici o ancora sociologici. Le Spose di Darwin. Nel ciclo espositivo delle Spose di Darwin – in cui il termine al plurale diventa un paradigma della coppia, essendo stato il naturalista e scienziato inglese, teorico dell’evoluzione delle specie (Charles Darwin, Shrewsbury, 1809/Londra, 1882), legato ad Emma Darwin (nata Wedgwood, Maer, 1808/Downe, 1896), unica, ideale, compagna della sua vita – Carla Iacono sostituisce ai suoi set fotografici il collage, che accade come un divenire di gesti sul supporto cartaceo, un ricostruire di mondi in cui si verificano metamorfosi, si rilevano allarmi, familiarizzano specie animali, vegetali, minerali, in cui protagoniste sono ancora figure di giovani donne, riprese dalle pagine di libri di anatomia animata, rinvianti alla ricerca fisiologica del Settecento, all’analisi della cosiddetta Lebenskraft, della Forza vitale, cioè, degli esseri. Queste figure femminili sono belle, imperturbabili, rasserenanti, fiduciose e confidenti, come la moglie di Darwin, appunto, che pur essendo di rigorosa fede unitariana, ha condiviso la sua vita con uno scienziato agnostico, senza mai tentare di conquistarlo alle proprie convinzioni, senza mai trasporre la propria fede religiosa in colui che l’aveva riposta nella scienza. Le donne di Carla Iacono, svestite dei loro abiti e rivestite di pesci e volatili, di rettili e fiori, di insetti come libellule e scarabei, di farfalle e coleotteri, sono tutte potenziali spose di Darwin che, occorre ribadirlo, fu sempre fedele a Emma Wedgwood, comunque donna colta e cosmopolita, che, a sua volta, lo ricambiò dandogli dieci figli, di cui tre purtroppo morirono. Quelle che vediamo in mostra sono tutte “spose” che si fanno spogliare dei loro abiti per farsi rivestire, in particolare, sul seno e sul pube, zone erogene e riproduttive, dall’universo degli interessi del compagno. Le due costanti, tuttavia, che si presentano, sono la donna come icona della bellezza ed il bersaglio di cui è fatta oggetto. Un esempio quello della coppia che dà il titolo alla mostra, davvero paradigmatico di una totale conciliazione delle differenze, di quelle differenze, anche di genere, che, trasferite sui piani dell’ideologia, delle tradizioni etniche, dello stato sociale, dell’appartenenza culturale, delle confessioni religiose, creano, ancora oggi nel mondo contemporaneo, attriti, conflitti, intolleranze, prevaricazioni, abusi. Una giovane donna, adornata di ogni specie vegetale o animale, accostata ad un bersaglio per pistola da campi di tiro, suscita immediatamente un interrogativo: quello per cui un oggetto del desiderio, producendo attenzione e scatenando volontà di possesso, genera tensione e violenza. Ecco spiegata la presenza di un bersaglio in un contesto di elogio femminista della differenza, come vuole, appunto, essere quello di questa artista. Una Wunderkammer di naturalia, artificialia, mirabilia. La motivazione seconda della mostra di Carla Iacono è quella che, in sintonia con la riflessione inaugurata da Walter Benjamin con l’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) intende aprire, virtualmente, ad un supposto pubblico di massa, la fruizione laica di quel particolare genere di oggetti rari, preziosi, curiosi, difformi, esotici, di manoscritti introvabili, di reperti archeologici, di ricche donazioni ex voto, che si custodivano nelle cosiddette Wunderkammern ovvero Camere delle Meraviglie. Questi “sacrari”, di esclusivo appannaggio delle classi di potere, aristocratiche, monastiche, benestanti, colte, con interessi scientifici, connesse storicamente ad un fenomeno che risale al Medioevo, si sviluppa nel Seicento, si protrae fino all’epoca dei Lumi, sono, in nuce, come luogo di raccolta, conservazione e custodia, la prima forma di Museo e come innescatori di quella pulsione all’appropriazione ed al possesso, da parte di soggetti pubblici e privati, la prima forma di collezionismo. Con le opere di Carla Iacono la Wunderkammer apre le sue porte alla collettività, esce dalla sua postazione segreta, privilegiata, per diventare portatile, per viaggiare, esporsi, trasformarsi in un manichino del Primo Novecento, adornato e impreziosito di una collana di Naturalia e Artificialia, cioè di reperti naturali e di altri costruiti manualmente dall’artista, o per diventare quel luogo del nascondimento e della curiosità, come direbbe Bachelard nella sua Poetica dello Spazio, che è la scatola, decorata a mano, impreziosita, colmata, di fregi, simboli, oggetti, che uno spettatore non esiterebbe a definire con il termine latino di Mirabilia, Cose Mirabili. Le aree linguistiche in cui, tendenzialmente, si esprime Carla Iacono sono la ripresa fotografica, l’installazione, la scrittura creativa, la citazione, il collage. Possibili referenti culturali delle sue scene primarie sono Shakespeare e Carroll, dei suoi archetipi Jung, dei suoi oggetti transizionali Winnicott, dei suoi rituali di passaggio transazionali Berne, prosecutore, in area relazionale, dell’analisi freudiana. Se questa artista, con i suoi “collage concettuali”, promuove, da una parte, la diffusione dell’opera d’arte attraverso la riproducibilità, da un testo originale, della scansione elettronica e della moltiplicazione dell’anatomia animata, dall’altra, per quanto concerne i soggetti tipologici del ciclo Le Spose di Darwin, con gli interventi manuali, il relativo leporello Fiorina edizioni (Varzi), duplicato a mezzo stampa, ritorna, se non al pezzo unico, ad una tiratura limitata. Siamo veramente certi che l’opera di questa artista, suscitando sensazioni magiche, situazioni carismatiche, percezioni cultuali, extrasensoriali, provenienti da scenari notturni, onirici, surreali, magneticamente seduttivi, non mantenga ancora, tra le spire delle sue volute, residui di quell’aura che Benjamin pretendeva definitivamente liquidata? La sua Weltanschauung scaturisce da un immaginario

ANTONIO LO PINTO | PERLE NERE E CRISTALLI DI TEMPO

  La scultura: un porre in opera incorporante di luoghi e con questi un aprire di contrade per un possibile abitare di uomini, per un possibile dimorare delle cose che li attorniano e li riguardano.  Martin Heidegger L’arte e lo spazio/Die Kunst und Der Raum                                                                         traduzione di Carlo Angelino , Il Melangolo, 1979 L’opera d’arte accade nello spazio inaugurandolo, non occupandolo. È con questa illuminazione che Martin Heidegger legge la modalità creativa della scultura, in rapporto allo spazio, inteso come luogo, come apertura di una contrada. Chi allestisce e chi visita una mostra assiste al dispiegarsi, ogni volta, di uno spazio inedito, in divenire: sono le opere che creano lo spazio che le accoglie, a partire dal quale acquisiscono nuova vitalità. È questa la modalità di lettura che sembra opportuno adottare per la mostra Perle Nere e Cristalli di Tempo dell’artista Antonio Lo Pinto (nato nel 1956 a Catania e residente, fin dall’infanzia, a Firenze) in quello spazio risplendente di quarzi, piriti argentate e dorate, di frastagliate rose del deserto che è il Museo Mineralogico Luciano Dabroi, luogo in cui la Natura si coniuga sorprendentemente e magicamente con la Cultura. Come la nave immaginaria di Capitan Jack Sparrow, nella saga dei Pirati dei Caraibi, sono approdati nelle sale di Palazzo Tagliaferro, a un cenno dell’artista, cicli di oggetti sacri e profani, aristocratici e quotidiani, come le Dinastie ed i Blister, vasi marmorei e Prismi argentati, archetipiche, cosmiche, Collane iperdimensionate di perle nere, le cui venature bianche sembrano riprodurre il labirintico percorso di una mente creativa, di un artista realista e visionario insieme. Disposte in cerchio, per adornare la grande colonna invisibile del tempo e del vento, queste enormi perle levigate sono di marmo nero di Marquinia, breccia calcarea di etá paleolitica, sedimentata nel periodo della conformazione geologica della crosta terrestre e ricavata dalle cave dei dintorni di Smirne, in Turchia, o di Bilbao, nella Spagna del Nord. L’iperdimensione delle Perle Nere esce dalla proporzione per accedere alla statura del monumento, concettualmente ideato, tuttavia, per delineare e cingere il vuoto, la luce e l’ombra, per sfiorare, con la materia, i bordi dell’immateriale, con il limite della forma il non limite dell’infinito. Una disseminazione di pillole, iperdimensionate anch’esse, rosa del Portogallo, bianco di Carrara, onice, verde delle Alpi, giallo di Siena e ancora nero Marquinia, di natura geologica, non chimica, non attenta alla salute della terra per sanare la malattia, reale o immaginaria, dell’uomo, ma ne abita il giardino, spostando la sua funzione su un terreno altro, ludico, estetico. Ancora in mostra due prismi argentati, in attesa di una funzione – come annota l’artista – alcuni bassorilievi marmorei rinvianti a tavole di scrittura, sculture da muro, piani pittorici, improntati ad un minimalismo geometrico. Dal pavimento ci guarda, con la sua pupilla bruna al centro dell’iride dorata, un inquietante, abnorme, bulbo oculare sferico. Antonio Lo Pinto, attivo nel mondo dell’arte dalla metà degli anni Ottanta, non cessa di dislocare altrove oggetti funzionali ad altri contesti, ad altre destinazioni. Muovendosi su un terreno sospeso tra l’ epico e il quotidiano, tra il gotico ed il postmoderno, tra il rituale e l’aleatorio, tra il mitico e l’illusorio, l’universo di questo artista ha sempre l’uomo al centro, con i suoi azzardi e le sue disillusioni, le sue utopie celesti e i suoi radicamenti terrestri. Tra la fisicità e la metafisica, tra il reale e il surreale, tra la gravitazione e la leggerezza, la mostra, scaturita dall’operosità dello scultore e dalla pensosità del sognatore, si snoda tra gli spigoli del poliedro, le punte ed i reticoli del cristallo, le curve della sfera, la sinuosità e la perpendicolarità di vasi contenenti e contenuti in una forma che li deborda e, al tempo stesso, li accoglie. Impegnato tra ideazione ed esecuzione, progetto e oggetto, opera e ambiente, Antonio Lo Pinto pratica simultaneamente la tradizione e l’ innovazione, la classicità e la sperimentazione di nuove forme di materia e pensiero, con esiti di misura e dismisura estetica, che l’osservatore percepisce a livello emotivo e sensoriale. Così si esprimeva Heidegger nel 1964, in merito alle Teste scolpite da Bernhard Heiliger: «Una testa non è un corpo a cui sono stati aggiunti occhi e orecchie, ma un fenomeno corporeo, contrassegnato dall’essere-al-mondo che guarda e ascolta. Quando l’artista modella una testa, sembra solo riprodurre le superfici visibili; in verità, egli configura ciò che è propriamente invisibile, ossia il modo in cui questa testa guarda nel mondo, il modo in cui soggiorna nell’aperto dello spazio, nel quale viene coinvolta da uomini e cose». Viana Conti

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